Ritratto a carboncino Racconto

Ritratto a carboncino:

“Ritratto a carboncino” è un racconto che nasce da un’immagine, un compito per un corso di scrittura. La consegna era quella di prendere una foto e descriverla a parole, facendo immaginare a chi ascoltava di vedere l’immagine precisa. Così scelgo il ritratto a carboncino di un neonato.
Poche righe per far immaginare ai miei compagni un bimbo paffuto, con i ricci, la boccuccia a cuore e la dolcezza dei lineamenti tipica dell’età. Bene. Fatto e finito. Poi passa il tempo, altri corsi, altri compiti, libri da scrivere. Quell’immagine però, ritorna come un singhiozzo. Mi appare in testa, me la sogno di notte, ogni tanto. Faccio finta di niente perché non so come completare quelle poche righe.
Poi, sogno una donna che si dà fuoco, sembra in ospedale, ha sul petto il ritratto del bambino. Aggiungo questa descrizione dettagliata e dolorosa alle righe da cui sono partita. Non ho ancora un racconto, però. Accantono di nuovo il tutto. Scrivo i primi tre racconti del libro e poi mi dico che ci devo mettere anche questo. Ma come? Pensa e ripensa, ragiona, prova, studia trame possibili e, alla fine, ne viene fuori un racconto molto triste, pieno di realtà. Questo racconto parla della vita reale di qualche donna maltrattata. Sono stata influenzata dalla cronaca? Ho mangiato pesante ed ho sognato?
A me piace pensare che una donna e il suo bambino avessero bisogno di far sapere al mondo come sono morti. Non so se riuscirete a leggerlo a cuor leggero, ma spero che lo facciate con l’affetto che io nutro per quel ritratto a carboncino. I miei racconti non sono mai tristi, mai spaventosi, mai volgari. Uso sempre tinte delicate anche nelle situazioni più difficili. Non in questo racconto. Questa volta, ho usato i colori giusti, quelli della brutta realtà di oggi.

“Sul tavolo c’è un foglio da disegno bianco a grana grossa con vicino i carboncini: uno spuntato e consumato e l’altro altezzosamente nuovo. La luce del sole illumina il caffè nel bicchiere di vetro disegnando ombre e riflessi colorati sul tavolo grigio e freddo.

Una mano scarna, tremante e incerta, già sporca di nero prende il carboncino consumato, poi lo posa tremando e afferra quello nuovo.

Prima disegna un cerchio, poi una riga nel mezzo, leggerissima. Lentamente compaiono riccioli di capelli, due occhi grandi, un naso, una bocca a forma di cuore, la curva delle guance, un mento, un collo. Sotto i capelli s’intravvede appena il lobo rotondo di un orecchio. Le dita sono sempre più sporche di nero, nonostante la donna le pulisca sovente con un piccolo straccio di cotone. La tensione e la concentrazione della donna sono palpabili, la punta della lingua sporge appena dalle labbra esangui.

Il polpastrello dell’indice incomincia ad accarezzare le curve delle guance per renderli meno netti, il mento e il naso acquistano nuove ombre, gli occhi si arricchiscono di una pupilla nera e di un’iride screziata. Le labbra si riempiono. I capelli si arricciano e si scompongono in mille ricci setosi. Ogni segno, ogni ombra è una carezza delicata e attenta.

Lo sguardo della donna vola oltre la finestra verso un cielo azzurro, luminoso e sorridente. Le labbra si distendono in un sorriso che non arriva a illuminare gli occhi tristi. Il ricordo del terribile periodo passato con suo marito riaffiora doloroso e pungente, riacceso da un rumore improvviso proveniente dal corridoio del reparto.”