Il sogno di Amelia – Racconto Horror
Il sogno di Amelia
Il racconto “Il sogno di Amelia” è tratto dall’antologia Racconti da Sogno 2021, pubblicato da Historica Ed.
Le palate di terra rimbombano sul legno, ma soprattutto sono colpi nel mio stomaco. Leonardo e io ci siamo amati sin dall’asilo. Abbiamo trascorso insieme trent’anni, frequentato le stesse scuole, fatto le stesse malattie. Oggi è il giorno del suo funerale. Bara lucida di legno chiaro, fiori bianchi e rossi, pochi parenti e qualche amico. Sento le lacrime bruciare, ma non piango. Papà Silvano mi viene vicino. Mi mette un braccio sulle spalle. Ha la voce che trema.
«Un uomo non dovrebbe sopravvivere al proprio figlio, sai? Non è giusto. Tu, però, mia cara, devi andare avanti. Devi riuscire a piangere. Continua a vivere. Lui non vorrebbe che tu ti fermassi.»
Lo guardo. Le sue parole sono pugni, non riesco a capirle. Adesso cosa succederà? Il funerale finisce, saluti imbarazzati e condoglianze gelide, Silvano mi accompagna a casa e mi dice: «So che devi piangere, ma appena riesci a esprimere il dolore, ricomincia a vivere. Leonardo vorrebbe così.»
Leonardo mi ha sempre spronata, era facile essere forti con lui vicino. Chiudo la porta, mi spoglio di tutto. Riempio la vasca di acqua bollente e dei suoi sali da bagno. Sento la sua voce, stona qualunque canzone, riprende a cantare e incomincia a tossire: l’ho visto quella volta, si è piegato, l’acqua si è tinta di rosso. Era già troppo tardi. Affondo nell’acqua ormai tiepida: trattengo il fiato, chiudo gli occhi e sto ferma sino a che i polmoni non chiedono aria. M’infilo tra le lenzuola, il cuscino ha ancora odore di shampoo e dopobarba. Nuda, sento la stoffa ruvida, sento il freddo e l’umido della mia pelle. Stringo il cuscino. Spero che una giornata pesante, difficile, dolorosa si trasformi in un sonno senza sogni.
Eccolo Leonardo, con jeans e camicia azzurra che incrocia le braccia gonfiando le maniche sui bicipiti. Sorride. Lo adoro, lo desidero tanto, gli volerei al collo, le mie gambe intorno ai suoi fianchi, i miei baci sul suo collo. Non posso muovermi, un lenzuolo bagnato è un sudario e mi lega.
«Bambina, che fai? Non perdere tempo. La vita scorre.»
«Ti amo, mi manchi Leo.»
«Continua a vivere. Non ti preoccupare.»
Ricominciare
Si allontana, indietreggia dentro un alone di luce, diventa una sagoma scura. Non posso neanche allungare la mano o muovere un passo. Mi agito e mi sento cadere. Sono sveglia, sul pavimento con il letto disfatto e un fianco dolorante. Decido di andare via, almeno per un po’. Ho bisogno di un viaggio lento, vago per una regione che non sa niente di me e del mio immenso dolore. C’è un piccolo paese, con la fontana al centro della piazza principale, case di pietra e legno. I balconi sono strisce chiassose di gerani colorati.
Mi lascio il paese alle spalle, attraverso un bosco che profuma di resina. Fa caldo e le cicale friniscono assordanti. Sono arrivata, lo specchio d’acqua riflette le montagne, bianche tutto l’anno. Lo chalet è di solo legno chiaro, ha le finestre piccole con le tendine a quadretti bianchi e rossi e le imposte con il cuoricino. Una spiaggia di erba densa come il velluto, una sdraio di legno che ha vissuto tutte le intemperie. Il silenzio è rotto dallo stormire delle foglie e dal lento sciabordare dell’acqua.
Resto seduta un po’ sul tronco che c’è di fianco alla porta. I miei polmoni non hanno mai respirato un’aria simile: profumata di resina, erba, acqua e neve. La parete è calda, mi rilasso e incomincio a stare meglio. Mi metto al lavoro, il computer occuperà un tavolino davanti alla finestra: riuscirò a trovare nuove idee con quel panorama. La giornata passa lenta, noiosa, parlo da sola. Dopo cena chiudo le porte, le imposte, ricontrollo tutto due volte. M’infilo nel letto, mi alzo, controllo di nuovo e torno a letto. Non posso stare qui da sola! Mi prende l’ansia. Ho bisogno di un cane. All’alba sono sveglia, mi preparo, scendo in paese troppo presto. Il bar è già aperto, non sono neanche le sette. Le vie sono ancora deserte.
Mi siedo al primo tavolo che trovo e chiedo un cappuccino e un cornetto. Il barista, Vincenzo, un ragazzo biondo come il grano con le guance accese e una sfolgorante camicia rossa, mi porta un cappuccino bollente e un biscotto friabile, giallo, delizioso. Torna al suo posto, mentre lava le stoviglie, mi guarda ogni tanto.
«Abito allo chalet del laghetto».
«Lo so, lei è la scrittrice. Quella nuova».
«Ecco, mi sono accorta di avere bisogno di un cane. Non posso stare da sola, lassù».
«Ci penso io».
Athos
Si avvicina a un telefono di bachelite nera, quelli di una volta. Sento il disco girare lentamente, un suono che sembra arrivare dal passato. Parla con qualcuno e gli spiega la situazione. Mi guarda e mi chiede se posso aspettare mezz’ora, annuisco decisa: non voglio tornare allo chalet da sola. Entra un uomo vestito come un cowboy: stivali lavorati, jeans, cappello, ha anche un fazzoletto rosso intorno al collo, un cane bianco al guinzaglio e un sacco di crocchette. Sorrido. L’animale è tranquillo, trotterella con la testa eretta, la coda vaporosa e bassa, il guinzaglio morbido, gli occhi sono neri, intelligenti e fieri.
«Buongiorno, mi chiamo Michele. Le ho portato Athos. È un cucciolone. Sa fare la guardia, difendere le persone, fare compagnia. Qui c’è il primo sacco di cibo. Una scodella al giorno, acqua sempre fresca».
Athos è un pastore maremmano, il pelo bianco non è troppo pulito. Mi mette il muso sulle ginocchia. Cattura il mio sguardo. Sento che mi salgono le lacrime agli occhi, affogo dentro uno sguardo infinitamente dolce. Gli accarezzo la testa e gratto le orecchie. Chiude gli occhi e sospira. Ringrazio Michele balbettando. Non vuole denaro. Alza le spalle, beve un caffè e un grappino che Vincenzo gli ha preparato. Va via.
«Come posso sdebitarmi con Michele?».
«Lasciagli una dozzina di caffè e grappe pagati. Lo fai felice».
Athos si mette al mio fianco, aspetta di poter salire sul sedile posteriore. Torno allo chalet e mi guardo intorno: Athos risalta sul prato verde, lappa l’acqua del laghetto, annusa ovunque. L’interno si anima: troviamo il posto adatto per le ciotole e un posto per dormire: ai piedi del mio letto, almeno per il momento. Parlo a ruota libera, Athos risponde a modo suo. Quando il sole diventa davvero caldo corre verso il laghetto, ci salta dentro felice come un bambino, nuota, esce, si scuote e si rotola appagato, nell’erba.
Una settimana vola via e io devo scendere a fare compere. Facciamo colazione da Vincenzo e aspettiamo che aprano i negozi.
«Sembra che siate diventati amici».
«Come pane e marmellata. Se sente Michele, gli dica che Athos è perfetto. Sono davvero molto felice».
«Michele non gliel’ha detto: Athos ringhia a lupi e orsi, quindi se lo sente, si chiuda in casa o venga giù con l’auto».
«Oh! Va bene! Sino ad ora non è successo. Ci sono lupi e orsi?»
«È montagna! Certo che ci sono. Stanno più in alto, ma se non trovano cibo, scendono. Vengono a curiosare nei bidoni, quindi attenta all’immondizia».
Adesso so perché l’altra notte Athos è corso alla porta, ha latrato ed è tornato vicino a me. Entra un uomo, alto, brizzolato, occhi verdi smeraldo, camicia a quadretti rossi e pantaloni di fustagno dentro i calzettoni, scarponi enormi. Mi guarda e sorride. Quasi svengo. Un sorriso spettacolare. Vincenzo gli prepara una scodella di caffè latte. Taglia del pane e lo mette ad abbrustolire. L’uomo si siede al mio tavolo.
«Di solito mi siedo qui. Può restare se vuole. Ciao Athos, come va?»
«Grazie, per l’ospitalità!»
Teo
Lo guardo, mi sento offesa, poi penso che è troppo grosso per litigarci. Athos mette il muso sulla sua gamba e aspetta un pezzo di pane, poi viene da me e si fa grattare l’orecchio per poi tornare ad aspettare un pezzo di pane. È massiccio, muscoloso dentro la camicia pesante, la stoffa tesa, pronta a esplodere. Gli occhi sono verdi come non li ho mai visti, il volto abbronzato e le rughe di espressione che rendono magnetico lo sguardo e il sorriso. Avvampo, un sorriso sciocco e un cappuccino freddo sul tavolo.
«Mi chiamo Teo. In paese fornisco legna a chi ha la stufa, faccio riparazioni idrauliche ed elettriche, il falegname. Se dovesse avere problemi con l’auto ho un carro attrezzi, ma alle riparazioni ci pensa il meccanico».
Mi porge un bigliettino macchiato d’unto e mi strizza l’occhio.
«Domani è domenica. Vengo al laghetto a pescare».
Dà per scontato che mi vada bene. Devo stupirlo.
«Mi procuri l’attrezzatura, per favore, vorrei pescare anch’io».
Ride. So che sta pensando che non ce la farò mai, non può sapere che io pesco da sempre. Arriva alle cinque del mattino, si mette a pescare fischiettando. L’ho sentito, Athos, dentro casa, è saltato dal letto, ha scodinzolato ed è tornato a dormire. Esco con due tazze di caffè bollente.
«Eccomi!»
«Buongiorno! Grazie per il caffè».
Mi siedo al suo fianco, guardo le sue mani, mi sta preparando un amo, legato a un filo sottile, la canna ha il mulinello. Mette una pallina di mollica sull’amo. Fa il lancio. Me la porge e ricomincia a pescare. Lascio scorrere il filo. Quando il galleggiante si muove piano, recupero. Ho preso un pesce lungo poco più di una spanna. Sembra non notare i miei movimenti, ma non mi perde di vista. Preparo la nuova esca, sorride e incomincia a fischiettare. All’ora di pranzo abbiamo pesci grandi e piccoli, li vado a pulire in casa.
«Se prepara il barbecue, io aggiungo un’insalata e della birra».
Pranziamo insieme, parliamo di quelle montagne, mi racconta le leggende del posto e della gente di paese. Athos mangia di gusto un pesce appena scottato, si mette all’ombra e sbadiglia soddisfatto. Trova una scusa per lasciarmi e se ne va. Chiudo casa, metto la sdraio all’ombra e mi godo la digestione lenta, Leonardo entra nel mio sogno. Mi guarda, con la luce alle spalle. Sorride, fa qualche passo indietro e scompare. Quando mi sveglio sento la mancanza dell’uomo che ho amato da sempre. Resto a guardare quel posto meraviglioso e mi chiedo se posso essere ancora felice. Teo è gentile, educato, simpatico, sa raccontare cose interessanti. Sarà l’uomo giusto? Sarà un piacevole diversivo? Non so cosa aspettarmi per il futuro, ma non ho fretta.
L’estate cede il passo all’autunno che sembra scivolare lento, il bosco ha cambiato colore e io devo ancora scrivere mezzo libro. Capita che riesca a lavorare tutto il giorno, ma spesso passeggio con Athos e alla domenica, pesco con Teo. Stasera spengo il computer tardi, chiudo la porta e le imposte, posso andare a dormire soddisfatta. Athos incomincia subito ad agitarsi. Ringhia e corre, impazzito, per casa.
Le imposte non mi permettono di vedere, dovrei aprire la finestra e socchiuderle: lo faccio con circospezione, la stanza è al buio. Vedo il bosco e il lago illuminati dalla luna piena, scorgo un movimento, una sagoma, due occhi rossi: un lupo grigio chiaro, grande. Metto il divano davanti alla porta: la bloccherà, ma non so per quanto. Prendo Athos per la collottola e mi rintano in un angolo abbracciandolo. Finiamo per addormentarci così, con la schiena appoggiata alla parete.
Leonardo appare: «Stai attenta! Non tutto è come sembra».
Albeggia, sono confusa. La casa è al buio. Raduno le mie cose e, appena è giorno, mi chiudo la porta alle spalle. Athos è tranquillo. Le mani tremano, rischio che mi cadano le chiavi, sbatto la portiera dell’auto e chiudo la sicura. Sono tesa, prego che l’auto parta subito. Fatico a mantenere il controllo, vorrei accelerare, ma ho paura di avere un incidente in un posto isolato. Le mani strette e bianche sul volante. Sento una presenza inquietante. lo sento nelle ossa. Arrivo al bar di Vincenzo. Mi viene incontro e mi fa sedere al mio solito tavolo.
«Ci penso io a te».
La sua cura è un bicchierino di cognac, con un bicchiere d’acqua.
«Bevi tutto!».
Tossisco. Appare un fazzoletto scuro che profuma di sole.
«Raccontami!»
«Stanotte c’era un lupo, grande, grigio, con gli occhi rossi. Ho chiuso lo chalet. Non ci torno»
Vincenzo va a telefonare. Arriva Teo con in mano un paio di chiavi.
«Raccontami tutto».
Lo fa Vincenzo, mentre si scambiano uno strano sguardo. Non capisco che cosa vogliano dirsi, ho la vista annebbiata dal cognac, contorco con le mani il guinzaglio di Athos che sta cercando di confortarmi. Teo mi accompagna in una piccola casa di pietra, a pochi passi dal bar di Vincenzo. In un ambiente solo c’è tutto il necessario, rustico e confortevole. Odore di legno e resina. Mi prende le chiavi dello chalet e torna dopo poco con tutte le mie cose.
«C’erano impronte di lupo intorno allo chalet. Sta arrivando l’inverno, non è più sicuro. Se nevica potresti restare isolata per settimane».
«Non ci torno!»
«Ho già risolto. Mia zia adora i tuoi libri, dice che sei una povera figliola e che sei la benvenuta».
Amore
Mi aiuta a sistemarmi, mi parla della zia. Ho con me qualche copia dei miei libri, li autografo e mi faccio accompagnare a ringraziarla. È entusiasta, emozionata, ci fermiamo a pranzo. Con Teo passo il pomeriggio giocando a carte, lo invito a fermarsi a cena. La serata passa in fretta. Sbadiglio. Mi saluta e si dirige verso la porta, ma non riesce ad aprirla, continua a parlare, tornare indietro, frugarsi nelle tasche. Ridiamo di questo balletto senza senso, apre la porta ed esce. Mi chiudo la porta alle spalle. Sento bussare.
«Hai dimenticato qualcosa?»
«Di dire che non posso starti lontano».
Sento un brivido percorrermi, affondo dentro i suoi occhi. Lo attiro a me e mi ritrovo dentro il suo abbraccio. Un dolce calore sale dalle mie gambe, le mani che mi sfiorano audaci, lunghi baci appassionati. I nostri corpi si fondono, i vestiti sono volati ovunque, fremo, esplora ogni centimetro di me, la sua bocca e il suo respiro moltiplicano il desiderio. Mi ha raccontato le sue cicatrici, stanotte le sfioro con i miei baci.
Quando tutto si acquieta, piango. Bacia ancora il mio dolore delicatamente e non mi chiede niente. Mi addormento al sicuro, con il suo respiro lento e caldo sul mio collo. Il cuscino vuoto è caldo di sole, sono sola. Teo è uscito prima che facesse giorno. Incomincia a correre, il corpo muscoloso muta in uno splendido e temibile lupo grigio che il branco saluta con un lungo ululato.